Marino Guarano
Una vita sospesa …
Di: Silvana Giusto
L’attenzione per la Ricerca storica locale ci porta costantemente alla scoperta di un comune passato molto spesso avvolto nel più fitto mistero. La curiosità ci spinge a sollevare la fitta ragnatela tessuta dal tempo sugli uomini e sulle cose.
Da alcuni anni cerchiamo di indagare su uno dei personaggi più controversi e misteriosi di queste terre: il giureconsulto Marino Guarano di cui quest’anno, nel maggio 2002, ricorre il bicentenario della scomparsa.
Poche e scarse sono le notizie pervenuteci, di sicuro sappiamo che nacque nel Casale di Melito il 1 aprile 1731 da Geronima Gentile e Michele Guarano; fu battezzato nella vecchia chiesa di Santa Maria delle Grazie dal Parroco Don Domenico Scarpa e gli furono imposti i nomi di Pasquale, Marino, Costantino.
La cronaca ci dice che la sua vita fu segnata da un evento tristissimo, infatti, all’età di 11 anni e, precisamente, il 28 gennaio del 1744 perse prima la madre, di soli 38 anni, e poi il padre cinquantacinquenne che per l’immenso dolore fu colpito da paralisi cardiaca. Restarono quattro orfani: Marino, Giovanni, Agnese e Michele.
Marino fu affidato alle cure del cugino Stefano Lombardi che provvide alla sua formazione culturale mandandolo a studiare nel Seminario diocesano di Napoli. A quei tempi il centro di studi religiosi costituiva un’opportunità irrinunciabile per i figli della piccola e media borghesia dei Casali e il ragazzo si fece onore distinguendosi soprattutto nello studio del latino e del greco. Ancora giovane cominciò ad avvicinarsi alla Filosofia nutrendosi delle letture dei grandi pensatori da Goffredo Leibniz a Giovanni Locke.
L’abate melitese respirò appieno l’aria di quegli anni di fine secolo, densi di avvenimenti ed ebbe contatti con tutta l’elite intellettuale del tempo.
Fu, infatti, allievo e amico del celebre giureconsulto napoletano Antonio Genovesi, conobbe Pasquale Cirillo, fratello del famoso medico di Grumo Nevano e in breve divenne esperto di Diritto civile, canonico e feudale.
Delle sue opere ne citiamo due in particolare: il libro pubblicato nel 1774 dal titolo L’ultimissimo diritto di Napoli dedicato a Marco Antonio Colonna, Principe di Stigliano, Duca e potente Signore dei feudi di Melito e Giugliano, scrive, poi nel 1792-94 Jus feudale, un compendio di tre volumi sul diritto feudale e sui soprusi baronali dedicata al suo dotto mecenate, il Marchese Saverio Simonetta.
L’abate inizia, dunque, nella capitale la sua brillante carriera a guisa di un’onda che lo porterà ad occupare posti prestigiosi nell’ambiente cattedratico ma a conoscere anche le durezze del carcere e l’amarezza dell’esilio.
Diventa dapprima lettore ufficiale straordinario alla prima cattedra di Istituzioni civili con uno stipendio annuo di 160 ducati che poi furono portati a 200, quando nel 1781 divenne professore ordinario.
Il 30 settembre 1785 ottenne la cattedra di Codice e, poi, anche quella di Diritto canonico superando il dottissimo giureconsulto Oronzio Fighera di Martino della provincia di Lecce. Insegna diritto civile e canonico dal 1786 al 1797 e, poi, finalmente viene chiamato alla cattedra di Diritto feudale che mantenne fino al 1799, epoca a cui risalgono i noti eventi della rivoluzione napoletana.
Che fosse un uomo di consolidata e vasta cultura lo testimoniano i suoi scritti sia di carattere legislativo che letterario e la sua carriera di giureconsulto e di docente universitario.
Di certo egli fu al centro di quella tempesta di libertà che investì gli spiriti illuminati partenopei. La singolarità di quest’uomo di indubbia vivacità culturale sta nel fatto che pur proveniente da un Casale di periferia riuscì, grazie ai suoi meriti e anche ad un innegabile intuito, a fare una brillante carriera. Il giovane melitese apparteneva a quella fitta schiera di provinciali che puntavano sulle proprie capacità e ambizioni per uscire dal limitato cerchio territoriale del proprio Casale. Infatti, la Napoli del 18° Secolo, seppure tra forti contrasti e innumerevoli contraddizioni, restava pur sempre la capitale del Regno delle due Sicilie, anche se collocato geograficamente e metaforicamente alla periferia di un impero.
In base alle informazioni raccolte e al materiale esaminato possiamo parlare di più periodi che hanno caratterizzato la vita di Marino Guarano. In un primo momento egli fu vicino alla casa reale, come del resto quasi tutti gli intellettuali del tempo. Basti pensare che l’eroina della Rivoluzione Partenopea la Marchesa Eleonora Pimentel Fonseca ricopriva l’incarico di bibliotecaria di fiducia della Regina Maria Carolina D’Asburgo.
Nel 1789 la casa reale viene colpita da una grave perdita; muore in Spagna il grande Re Carlo III di Borbone lasciando dietro di sé ricordo e rimpianto indelebili. Tutti si precipitarono a celebrarne la dipartita e al coro di voci di lode che si levò dalla casta di tanti cortigiani si unì quella del melitese. In occasione di un lieto avvenimento, quale le nozze dell’erede al trono Francesco I con la fragile Maria Clementina D’Austria, egli fa sentire ancora una volta la sua voce e innalza persino un’ode all’Ammiraglio Orazio Nelson sbarcato a Napoli l’11 settembre 1791, accolto da trionfatore dalla corte e dal popolo in festa.
Ma il regno di Ferdinando IV, di li a poco vacilla e il Guarano passa dalle lodi borboniche a quelle della giovane Repubblica partenopea fino a scrivere un ipotiposi, cioè una descrizione immediata, quasi visiva del pittoresco generale Jean–Etienne Championnet che tanta parte ebbe negli accadimenti convulsi del semestre repubblicano.
L’adesione alla neo-repubblica è piena, entusiasta e senza indugi tanto da far superare al Guarano ogni freno prudenziale. Infatti, nonostante il parere contrario del suo concittadino: l’abate Francesco Rossi, lo ritroviamo presente con un discorso patriottico nella Piazza nazionale in occasione della festa dell’albero della libertà, simbolo pagano dei giacobini che tante emozioni contrastanti suscitò nelle popolazioni del Sud.
La controrivoluzione, intanto, avanzava a marce forzate guidata dal Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria. Questi, sbarcato a Punta di Pizzo calabro l’8 febbraio 1799, cominciò la difficile impresa con soli 300 contadini armati, ma in breve tempo riuscì a formare un’armata di 17.000 uomini che si dissero «Esercito della Santa Fede». Il Cardinale con un’orda di forsennati risalì tutto il Sud, giunse in Campania, si impadronì di Marigliano, prese Portici e a nulla valse l’opposizione accanita del generale Manthonnè, solo Aversa resistette con il Principe Strangoli e 300 uomini. L’11 giugno i francesi attraverso la strada regia di Capodichino, poi percorrendo le campagne di Miano e i boschi di Giugliano ripiegarono su Aversa, e furono contrastati al ponte di Melito dagli afragolesi e dai santantimesi.
Le truppe sanfediste continuarono la loro marcia ma nella città di Napoli non ebbero facile vittoria e incontrarono la resistenza dei giacobini al Fortino di Vigliena, al Ponte della Maddalena, ai Castelli e per le vie della città.
Alla caduta della Repubblica il 13 giugno 1799 inizia la restaurazione dei Borboni. La vendetta di Ferdinando IV e dell’ammiraglio Orazio Nelson istigati dalle dame nere del Regno: la regina Maria Carolina e lady Emma Hamilton fu spietata.
L’abate melitese viene catturato e portato nelle terribili prigioni dei Granili, grandi silos situati di fronte al porto, e rinchiuso insieme ad altre 300 persone.
L’indomito patriota Guglielmo Pepe scrive nelle sue memorie che «Marino Guarano era quasi impazzito» e un giovane catanzarese vestito da prete Gaetano Rodinò ci parla di un cattedratico che conservava il suo abito talare e il cappello con grande dignità tra uomini laceri e nudi.
Egli molto probabilmente passò anche nelle prigioni di Castelcapuano e Castelnuovo prima di essere imbarcato per Marsiglia ove giunse il 18 marzo 1800.
Prima di partire dettò le sue disposizioni testamentarie al notaio G. Guarini e nominò erede universale il nipote Michele. La casa di Melito fu saccheggiata e passò nelle mani del Maggiore Stefano Salvo, marito dell’unica nipote vivente: Santa Guarano.
L’esilio francese fu dapprima molto difficile, poi il colto abate incontrò il favore del Prefetto del Rodano che gli affidò l’istruzione dei figli. A Parigi fu in compagnia del nipote Stefano Piscopo, figlio di Vincenzo e Agnese Guarano, anch’egli condannato per la sua attività di edile al tempo dei noti fatti.
Passata la bufera e tornati in auge i francesi gli italiani firmarono il Trattato di Firenze e agli esiliati fu concesso il permesso di rientrare in patria.
Marino Guarano intraprese il viaggio di ritorno con il nipote Stefano Piscopo, poi questi si recò da solo a Torino e l’abate proseguì per il Sud. Purtroppo egli non giunse mai nella sua Melito e la sua scomparsa è avvolta nel mistero. Secondo alcuni fu gettato in mare tra Marsiglia e Livorno, secondo altri fu assassinato dal vetturino o dal cameriere per impossessarsi di una cospicua somma di danaro e dei pesanti bottoni in oro del suo abito talare.
Con questo mistero si conclude la vita di un esule di questa periferia lasciandoci l’interrogativo della sua scomparsa. Ma è proprio in questa sospensione, in questo racconto storico incompleto che egli assurge ad emblema di miserie e nobiltà, di ombre e luci, di tenebre e chiarori, di mezze verità e equilibrismi bizantini. Si chiude, così, la vita di Marino Guarano, illustre melitese che nel bicentenario della sua scomparsa meriterebbe di essere celebrato. La sua memoria va conservata; egli appartiene alla sua terra, è parte del patrimonio di identità collettiva e vivrà finché sarà vivo il ricordo della sua sofferta avventura umana.
dal sito: ISTSTUDIATELL